Promuovere il cambiamento

(Da mimesis-scenari.it) Lo scorso 15 dicembre ci ha lasciato all'età di 69 anni bell hooks (Gloria Jean Watkins, Hopkinsville 1952 – Berea 2021), "un’autrice prodigiosa e una delle più importanti studiose femministe del nostro paese”, come è stata definita dal Berea College, l'università presso la quale insegnava. hooks è stata una delle icone del femminismo contemporaneo, nonché un'attenta studiosa delle relazioni di potere e oppressioni generate dall'intreccio tra classe, razza e sesso, in special modo nei contesti educativi.

Informazioni

Lo scorso 15 dicembre ci ha lasciato all'età di 69 anni bell hooks (Gloria Jean Watkins, Hopkinsville 1952 – Berea 2021), "un’autrice prodigiosa e una delle più importanti studiose femministe del nostro paese”, come è stata definita dal Berea College, l'università presso la quale insegnava.
hooks è stata una delle icone del femminismo contemporaneo, nonché un'attenta studiosa delle relazioni di potere e oppressioni generate dall'intreccio tra classe, razza e sesso, in special modo nei contesti educativi.
Ma cosa significa veramente insegnare in un ambiente multiculturale e multietnico? E cosa possono fare gli educatori per affrontare la diversità senza avvalersi di schemi sedimentati nella società
?
Su Scenari ricordiamo l'autrice pubblicando un brano sul tema tratto dal volume Insegnare a trasgredire (Meltemi Editore, 2020, traduzione di feminoska).

Quando sono entrata per la prima volta in un ambiente multiculturale e multietnico, non ero preparata. Non sapevo come affrontare efficacemente tanta “differenza”. Nonostante la mia politica progressista e il mio profondo impegno nel movimento femminista, non ero mai stata costretta a lavorare in un ambiente veramente eterogeneo e non avevo le competenze necessarie. Questo è il caso della maggior parte degli educatori. Per molti educatori statunitensi è difficile figurarsi la composizione della classe quando si trovano di fronte ai dati demografici che indicano che la “bianchezza” potrebbe smettere di essere la norma etnica nelle classi. Gli educatori sono scarsamente preparati ad affrontare realmente la diversità, ed è il motivo per cui così tanti fra noi si aggrappano ostinatamente ai vecchi schemi. Nello sforzo di creare strategie di insegnamento capaci di dare spazio all’apprendimento multiculturale, ho ritenuto necessario riconoscere ciò che in altri scritti pedagogici ho chiamato “codici culturali” differenti. Per insegnare efficacemente a un corpo studentesco diversificato, devo imparare questi codici. E gli studenti devono fare lo stesso. Questo atto è di per sé capace di trasformare l’aula. La condivisione di idee e informazioni non progredisce rapidamente come accade in contesti più omogenei. Nel contesto multiculturale, professori e studenti devono imparare ad accettare modi di conoscere differenti e nuove epistemologie.

Così come può essere difficile per i professori cambiare i propri paradigmi, è altrettanto difficile per gli studenti. Sono convinta da sempre che gli studenti debbano imparare divertendosi, eppure ho capito che la classe eterogenea, in cui la filosofia dell’insegnamento è radicata nella pedagogia critica e (nel mio caso) nella pedagogia critica femminista, sperimenta una tensione maggiore. La presenza di tensione – e talvolta persino di conflitto – spesso ha significato che gli studenti non amavano le mie lezioni o non apprezzavano me, la loro insegnante, come segretamente avrei sperato. Insegnare una disciplina tradizionale dal punto di vista della pedagogia critica significa scontrarsi spesso con studenti che esprimono lamentele del tipo: “Pensavo si trattasse di un corso di inglese, perché parliamo così tanto di femminismo?” (Oppure, potrebbero dire, “di razza” o “di classe”). Nell’aula trasformata spesso è ancor più fondamentale spiegare la filosofia, la strategia, l’intento rispetto al contesto dominato dalla “norma”. Nel corso degli anni, molti degli studenti che si lamentavano all’infinito durante le lezioni mi hanno contattato successivamente per dirmi quanto quell’esperienza avesse significato per loro, quanto avessero imparato. Come docente, ho dovuto rinunciare al bisogno della conferma istantanea del successo del mio insegnamento (anche se qualche ricompensa subitanea l’ho avuta) e accettare l’incapacità degli studenti di apprezzare immediatamente il valore di un certo punto di vista o processo. L’aspetto eccitante della creazione di una comunità di studenti che rispetta le singole voci è il riscontro decisamente maggiore, perché gli studenti si sentono liberi di parlare e di rispondere. E, sì, spesso questo riscontro è fondamentale. Per la mia crescita come insegnante, prendere le distanze dalla necessità di una conferma immediata è stato cruciale. Ho imparato a rispettare la sfida posta dai paradigmi mutevoli o dalla condivisione inedita di conoscenze; ci vuole tempo perché gli studenti vivano questa sfida come positiva.

Gli studenti mi hanno anche insegnato che in questi nuovi contesti di apprendimento è necessario praticare la compassione. Non ho mai dimenticato il giorno in cui uno studente è entrato in classe e mi ha detto: “Seguiamo il suo corso. Impariamo a guardare il mondo da un punto di vista critico, che prende in considerazione razza, sesso e classe. E non riusciamo più a goderci la vita”.
Scrutando la classe, indipendentemente da razza, preferenze sessuali ed etnia, ho visto molti studenti annuire con la testa. E per la prima volta ho compreso che rinunciare ai vecchi modi di pensare e di conoscere, così come apprendere nuovi approcci può implicare, e di solito implica, un certo grado di sofferenza. Rispetto quel dolore. E ora quando insegno lo riconosco, vale a dire, insegno a cambiare paradigmi e parlo del disagio che ciò può causare.
Agli studenti bianchi che imparano a pensare in modo più critico alle questioni relative a razza e razzismo, può capitare di tornare a casa per le vacanze e vedere improvvisamente i propri genitori sotto una luce diversa. Ne riconoscono il pensiero reazionario, il razzismo e così via, e può ferirli scoprire che nuovi modi di conoscere possano creare alienazione dove non ce n’era. Spesso, quando gli studenti tornano dalle vacanze, chiedo loro di condividere con noi in che modo ciò che hanno scoperto e su cui hanno riflettuto in classe abbia influito sulla loro esperienza all’esterno. Questa pratica offre loro l’opportunità di rendersi conto che le esperienze difficili sono molto comuni, e di integrare teoria e pratica, modi di conoscere e abitudini consolidate. Ci interroghiamo sulle abitudini consolidate così come sulle idee, e attraverso questo processo costruiamo una comunità.

Nonostante l’attenzione alla diversità e i nostri desideri di inclusività, molti professori insegnano ancora in aule prevalentemente bianche, e spesso in questi contesti prevale uno spirito di tokenismo. Questo è il motivo per cui è tanto cruciale che la “bianchezza” sia studiata, compresa, discussa – in modo che tutti imparino che l’affermazione del multiculturalismo e una prospettiva inclusiva e imparziale possono e devono essere presenti indipendentemente dalla presenza di persone di colore. Trasformare queste classi è una sfida tanto grande quanto imparare a insegnare bene nel contesto della diversità. Spesso, se c’è una sola persona di colore in classe, viene oggettivata dagli altri e costretta ad assumere il ruolo di “informante nativo”.
Ad esempio, viene letto un romanzo di un autore coreano americano, e gli studenti bianchi si rivolgono all’unico studente di origini coreane per farsi spiegare ciò che non capiscono. Ciò pone una responsabilità ingiusta sulle spalle di quello studente. Il docente interviene in questo processo chiarendo fin dall’inizio che l’esperienza non rende esperta una persona, e forse anche spiegando cosa significa far assumere a una persona il ruolo di “informante nativo”. Va detto che i professori non possono intervenire in tal senso se anche loro considerano gli studenti come “informanti nativi”. Spesso, si sono presentati nel mio ufficio studenti che lamentavano la mancanza di inclusione nel corso di un altro docente. Ad esempio, un corso sul pensiero sociale e politico negli Stati Uniti non includeva alcuna opera scritta da donne. Quando gli studenti lamentano con l’insegnante questa mancanza di inclusione, sovente viene loro chiesto di fornire suggerimenti sul materiale da utilizzare. Ciò comporta un onere ingiusto per lo studente, e dà l’impressione che sia importante affrontare il pregiudizio solo se qualcuno se ne lamenta. Sempre più spesso gli studenti desiderano un’educazione democratica e imparziale nel campo umanistico, e quindi protestano.

Il multiculturalismo costringe gli educatori a riconoscere gli stretti confini che hanno modellato il modo in cui la conoscenza viene condivisa in classe, e ci obbliga tutti a riconoscere la nostra complicità nell’accettare e perpetuare pregiudizi di ogni tipo. Gli studenti sono desiderosi di superare gli ostacoli che li separano dalla conoscenza, e sono disposti ad arrendersi alla meraviglia di reimparare e apprendere modi di conoscere che vanno controcorrente. Quando noi, in quanto educatori, permettiamo alla nostra pedagogia di essere radicalmente trasformata dal riconoscimento di un mondo multiculturale, possiamo offrire agli studenti l’educazione che desiderano e che meritano. Possiamo insegnare in modi che trasformano le coscienze, realizzando un clima di libera espressione che è l’essenza di un’educazione alle scienze umanistiche veramente libertaria.